Suicidio |
Il suicidio è sempre stato presente in gran parte delle società nelle diverse epoche. La sua interpretazione e concettualizzazione è però alquanto varia, soprattutto in relazione alle possibili spiegazioni del fenomeno e alla sua eventuale condanna o giustificazione morale. La storiografia del suicidio riflette pertanto i cambiamenti nelle cause e nei significati ad esso attribuiti nel corso dei secoli, in particolare le interpretazioni sociali formulate al fine di comprenderne le radici, e gli aspetti morali in esso impliciti, riflesso delle attitudini di un dato popolo e del sistema di valori in cui il suicidio veniva a trovarsi iscritto. Valutazioni di natura sociale e attribuzioni di carattere morale sono intimamente connesse a una data struttura o condizione della società, che dà forma a ideologie e sistemi di valori, che a loro volta influenzano le condizioni sociopolitiche esistenti. La storia del suicidio si sviluppa lungo un cammino fatto di idee e valori che rispecchiano per lo pili il contesto sociale nel quale concezioni e riferimenti morali si sono formati. Dall'antichità fino al Rinascimento e a tutto il periodo preindustriale, tanto in Oriente quanto in Occidente, la questione dominante intorno al suicidio è stata quella della sua mo rarità, a sua volta influenzata dal credo celi gioso e dall'orientamento filosofico dominanti. Le cause del suicidio hanno cominciato ad essere studiate sistematicamente, con indagini mediche e sociologiche e poi con indagini psicologiche e psichiatriche, solo a partire dal XX secolo, dando luogo a interpretazioni assai eterogenee. I sociologi ritengono fondamentali le questioni di carattere sociale (per esempio, le crisi economiche o politiche), gli psichiatri e gli psicologi pongono al centro del problema le caratteristiche individuali e comportamentali del soggetto (e quindi le crisi personali), mentre i biologi enfatizzano il ruolo degli elementi genetici e fisiopatologici. Di fatto, almeno tre linee di pensiero hanno dato origine a tre distinti modelli interpretativi dei comportamenti suicidari. Il primo modello si basa sulla relativa stabilità dei tassi di suicidio e sulla scelta di variabili sociali identificate da studi di statistica macrosociologica, mentre le ricerche microsociologiche considerano la consistenza esistente nei motivi interpersonali di chi tenta il suicidio. Il secondo modello riguarda la supposta presenza di comuni caratteristiche psicologiche e psicodinamiche tra le persone suicidane. Il terzo, infine, rappresenta un tentativo di sintesi degli elementi correlati al suicidio di rilevanza sia sociologica che psicologica. I rapidi rivolgimenti strutturali intrinsecamente connessi alla rivoluzione industriale, accompagnati da profonde modificazioni nelle relazioni sociali e nel sistema di valori, hanno sviluppato nell'ultimo secolo una forte secolarizzazione accompagnata da spinte individualistiche. A tutto ciò sono correlati significativi aumenti nei tassi di suicidio, il che ha alimentato l'interesse per una possibile relazione tra cambiamenti sociali e comportamenti suicidari. Il XX secolo ha visto anche un crescente numero di paesi decriminalizzare le condotte suicidarle. La crescita della democrazia ha evidentemente influenzato l'attitudine del pubblico nei confronti del suicidio. Il tentativo di individuare delle variabili sociali in rapporto ai tassi di suicidio ha caratterizzato soprattutto gli studi di epidemiologia sociale e di medicina. Nelle scienze sociali, il lavoro di E. Durkheim dal titolo Il suicidio (1897) è universalmente considerato un classico dell'approccio epidemiologico. Alla base delle teorie di Durkheim c'è il concetto di «integrazione», che mette in relazione la mortalità suicidaria con la percezione da parte di un individuo del suo essere accettato all'interno della società, che si tratti della famiglia, della comunità religiosa, o di un dato paese. In questa teoria sono le variabili di tipo sociale ad essere utilizzate per spiegare le cause del comportamento suicidano, fondandosi sul ruolo dell'integrazione e delle regole sociali, considerate capaci di predire future vittime di suicidio. L'integrazione sociale si basa sul livello di accettazione delle norme vigenti, e cioè sul grado di aderenza alle leggi del gruppo sociale di appartenenza. Gli individui completamente inseriti nel loro contesto sociale e totalmente assorbiti dagli scopi del gruppo sono esposti a un tipo di suicidio definito «altruistico». Viceversa, i soggetti emarginati rispetto al gruppo d'appartenenza, di cui poco o punto condividono le aspirazioni, si trovano esposti a eccessive spinte individualistiche e possono stentare a trovare basi giustificative alla propria esistenza. Per Durkheim questa condizione si concretizza nei casi di suicidio «egoistico». La seconda variabile si riferisce al grado di controllo sociale esercitato da una determinata società sui sentimenti e le motivazioni del singolo appartenente. All'interno di gruppi sociali altamente regolati, taluni individui possono conformarsi ad essi fino alla sostanziale stagnazione, favorita da rigidità e inflessibilità delle norme esistenti, e così divenire vulnerabili a forme di suicidio definibili come «fatalistiche». Al contrario, gli individui che rifiutano simili tipi di organizzazione sociale finiscono col soffrire per la mancanza di regole e si espongono al rischio di suicidio «anomico». Durkheim riteneva che una bilanciata distribuzione dell'integrazione e delle regole sociali rappresentasse anche il punto di massimo equilibrio sociale, e quindi anche la posizione capace di prevenire il suicidio. In tale posizione si colloca ordinariamente la maggior parte delle persone. Durkheim non ha fornito, purtroppo, dati corrispondenti al supposto «tasso di equilibrio» della mortalità suicidaria, e ciò per l'impossibilità di tradurre in termini operativi una definizione di «equilibrio». Durkheim non era primariamente interessato al problema del suicidio in sé: egli voleva fornire la prova per cui anche un atto squisitamente personale come il suicidio poteva essere predetto dall'associazione di fattori «esterni» quali il tipo di famiglia, il credo religioso, le condizioni economiche, ecc. La sua fu una sfida a tutti coloro che pensavano che il suicidio dipendesse esclusivamente da fattori individuali, ricostruibili soltanto per mezzo di interpretazioni psicologiche. La teoria di Durkheim non ha semplicemente carattere epidemiologico. Il suicidio contiene almeno due tesi: una «epidemiologica», la quale sostiene che certi aspetti di una società creano un'atmosfera tale da indurre più membri di quella comunità ad attuare comportamenti suicidari, elevando così il tasso di suicidio in quella data società; e una «storica», la quale sostiene che le variazioni nei tassi di suicidio in una società sono successive a variazioni di certi aspetti di quella società. Nel corso del '900, la tesi epidemiologica è quella che è stata pili utilizzata per cercare di comprendere l'eziologia del suicidio. Le ricerche effettuate si basavano sui fondamenti dell'organizzazione sociale identificati da Durkheim (integrazione e regolazione) e conseguentemente associavano gli indicatori di disordine sociale (anomia) con un aumentato rischio di suicidio. Tali indicatori sono stati identificati con condizioni sociali quali il divorzio, la vedovanza, la disoccupazione, la diminuita pratica religiosa o il protestantesimo, la nuclearizzazione della famiglia, ecc. Ma mentre le variabili sociali comportano significati e rilevanza diversi a seconda del periodo storico, gli studi epidemiologici hanno finora ignorato la possibilità di un cambiamento nel significato e nelle conseguenze degli indicatori sociali (per esempio, le mutate implicazioni di una famiglia nucleare, di un divorzio, della ridotta o assente pratica religiosa). Tutto ciò si identifica con la tesi «storica» (e generalmente dimenticata) di Durkheim, secondo cui gli indicatori sociali di anomia della fine del xix secolo possono avere tutt'altro significato al giorno d'oggi. Il XX secolo è stato caratterizzato da imponenti cambiamenti sociali. Dal momento che tali cambiamenti causano a loro volta cambiamenti nel modo di pensare dei membri della comunità, i progressivi sviluppi strutturali potrebbero essere messi in relazione con la prospettiva evoluzionistica che, sia in Europa che in America, ha caratterizzato il modo di concepire le scienze sociali per gran parte del xx secolo. Poiché i tassi di suicidio, in tale periodo, sono in genere aumentati, la modernizzazione - intesa come l'insieme dei fenomeni di trasformazione sociale che si accompagna allo sviluppo della società industriale - è stata utilizzata negli studi storici come la variabile interpretativa più importante per spiegare la formazione e variazione dei tassi di suicidio. Per gran parte del '900 l'interesse principale nelle scienze sociali è stato per l'eziologia del suicidio piuttosto che per la sua razionalità o per gli aspetti morali da esso implicati, fattori analizzabili essenzialmente con metodi qualitativi o in una prospettiva fenomenologica, piuttosto che con i metodi quantitativi che si andavano affermando nelle scienze sociali. J. Douglas (1967) sostiene che non basta inquadrare la natura delle cause fondamentali del suicidio in un'ottica positivista (esterna all'individuo), bensì anche fenomenologica, poiché appartiene al mondo delle emozioni, dei significati e delle idee. L'approccio fenomenologico asserisce infatti che le azioni umane rilevanti per le scienze sociali sono quelle significative. Dal punto di vista fenomenologico, le condizioni sociali internalizzate (motivazioni, significati, emozioni) possono portare a suicidio nella misura in cui un individuo ne prevede o interpreta l'impatto su di sé. Questo significa che le variabili sociali «esterne» (divorzio, religione, ecc.) possono essere causa di suicidio solo se un individuo è preparato a riconoscerne il ruolo causale. L'approccio fenomenologico si è limitato allo studio di chi ha tentato il suicidio come mezzo per comprendere chi invece il suicidio lo compie, anche se le motivazioni tra i due gruppi di soggetti (corrispondenti a suicidi tentati e realizzati) sono solo parzialmente coincidenti. L'approccio fenomenologico ha avuto qualche influenza sullo studio della razionalizzazione del suicidio, in particolare a proposito del concetto di suicidio «razionale», il quale si riferisce a un comportamento autodistruttivo in cui un individuo si chiede freddamente e attentamente se la vita valga la pena di essere vissuta, esercitando quindi il proprio diritto all'autodeterminazione, scegliendo tra la vita e la morte. Attraverso un atto suicidarlo non fatale, un individuo decide di manipolare l'ambiente circostante senza che ciò implichi la minima intenzione di morire. Il suicidio razionale può trovare spiegazione all'interno della teoria della «scelta razionale», comune a discipline quali la sociologia, le scienze economiche e quelle politiche. La teoria della scelta razionale asserisce che quando un soggetto è alle prese con situazioni diverse, è normalmente portato a scegliere ciò che ritiene possa produrre il risultato migliore; ogni azione sociale, incluso il suicidio, può pertanto essere definita come motivata razionalmente e come mirante a ottenere uno scopo, anche quando questo appaia come irrazionale. D. Marcotte (2003) osserva che quando qualcuno tenta il suicidio ma sopravvive all'atto, il suo reddito aumenta del 20,6% rispetto a individui che hanno si pensato al suicidio, ma non l'hanno poi tentato. Marcotte aggiunge che più grave è il tentativo, maggiore è l'aumento di reddito registrato. Coloro che tentano il suicidio finiscono infatti per avere accesso a un gran numero di risorse in forma di assistenza medica, attenzione psichiatrica, affetto e preoccupazione familiari che in precedenza risultavano costose o non disponibili. Insomma, quando qualcuno è triste o anche depresso, l'accesso alle cure mediche può risultare difficile; quando qualcuno tenta il suicidio, invece, l'assistenza diventa obbligatoria. Il modello psicologico si riferisce a quelle interpretazioni sia psicologiche che psichiatriche del suicidio che si basano sullo studio dell'individuo come principale unità d'analisi. Da un punto di vista psichiatrico, vi è consenso sull'importanza della depressione e di altre malattie mentali nella genesi del suicidio, anche se vi sono individui con le stesse caratteristiche (depressione e altre malattie mentali) che non commettono suicidio (falsi positivi) e quelli che non sono depressi né ammalati per altre condizioni psichiatriche che commettono invece suicidio (falsi negativi). Il significato delle emozioni e dello stato cognitivo implicati nei comportamenti suicidari fu affrontato da S. Freud, il quale, a livello psicodinamico, concepì il suicidio come il prevalere dell'istinto di morte (Thanatos) su quello di vita (Eros). In tal modo, l'Io razionale si troverebbe a dover fronteggiare due tensioni di direzione opposta. Qualora prevalesse l'istinto di morte, l'Es (la parte irrazionale ed emozionale della mente), diretto verso la morte, darebbe spazio alla realizzazione del suicidio. Freud sviluppò una prospettiva psicosociale allorché rese equipollenti suicidio e omicidio. Infatti, se da un lato il suicidio è il più personale dei comportamenti (un atto contro di sé), dall'altro l'omicidio implica un comportamento interpersonale (un atto contro un altro). I due comportamenti sono accomunati dall'azione distruttiva di Thanatos; entrambe le azioni sono motivate dall'aggressività. Da questo punto di vista il suicidio diviene un omicidio ruotato di 180 gradi. K. Menninger sviluppò ulteriormente le ipotesi freudiane, osservando che, per effetto di un rafforzato istinto di morte in fasi di stress e crisi, il soggetto suicidano si caratterizza per una forte aggressività verso gli altri e verso se stesso. Il suicidio si collocherebbe pertanto alla fine di un continuum rappresentato dal «desiderio di uccidere», dal «desiderio di essere ucciso» e infine dal «desiderio di morire», inteso come negazione degli stati precedenti. G. Zilboorg aggiunse a tali analisi - focalizzate sul ruolo dell'ostilità inconscia (desiderio di uccidere, di essere ucciso) - anche la particolare incapacità di amare dei soggetti suicidari. La mancanza di aspettative positive per il futuro, o mancanza di speranza, rappresenta un costrutto psicologico dall'alto potere predittivo per la depressione clinica, l'intenzione suicidarla, la letalità del metodo suicidario, e la disponibilità a morire. A. Beck et al. (1985) hanno identificato indicatori di pessimismo quali il senso di fallimento, il non piacere a se stessi e l'ideazione suicidarla, come fattori particolarmente importanti per il riconoscimento delle persone depresse più esposte al rischio di suicidio. E. Shneidman (1985) ha individuato nel dolore psichico il denominatore comune dei costrutti psicologici sottesi al suicidio. L'insopportabilità di tale tipo di sofferenza porterebbe più di ogni altro fattore alla ricerca del sollievo o dell'uscita dalla situazione che ha generato il dolore psichico. Il suicidio è dunque una strategia di soluzione dei problemi in cui il soggetto cerca di evitare lo stress (ulteriore), di controllare l'insopportabilità del dolore, attraverso la sua cessazione o il suo equivalente esperienziale, e cioè il cambiamento dello stato di coscienza. Secondo Shneidman il suicidio è un atto di consapevole autoannichilimento, meglio compreso nel contesto di un disagio multidi-mensionale in cui l'individuo identifica il suicidio come la migliore soluzione possibile. In generale, gli aspetti psicologici e psichiatrici caratterizzano in maniera appropriata i bisogni del singolo individuo, ma a livello di popolazione non permettono di predire/identificare la maggior parte dei suicidi, né consentono di risòlvere il problema dei falsi positivi e dei falsi negativi. Il modello psicosociale del suicidio implica un approccio che integra sia le caratteristiche sociali che quelle psicologiche associate all'eziologia del suicidio. Esso si riferisce a teorie strutturate in modo tale da operare una sintesi tra le variabili sociali (popolazione) e quelle psicologiche (individuo). M. Farber (1968) cercò di formulare una teoria generale postulando che i soggetti più inclini al suicidio sarebbero le personalità danneggiate psicologicamente e costrette a confrontarsi con situazioni di deprivazione, come ad esempio i soggetti caratterizzati dall'assenza di speranza e dalla diminuita sensazione di capacità. Tipiche realtà di deprivazione sarebbero le relazioni disfunzionali (quindi la mancanza di supporto sociale) e la tolleranza per la volgarizzazione del suicidio peculiare della sottocultura del gruppo sociale di appartenenza. Nella visione di Farber i fattori di personalità eserciterebbero una doppia azione: la prima, ovviamente, a carico del soggetto che presenta dette caratteristiche; la seconda, come fattore di influenza su altri membri della stessa comunità (diventando parte del contesto sociale) e quindi presentando un effetto moltiplicatore verso altre personalità vulnerabili. R. Maris (1981) ha fornito un altro modello di integrazione di elementi sociologici e psicologici, offrendo una serie articolata di conclusioni possibili a partire da un modello di teoria generale dei comportamenti suicidari: il suicidio è direttamente correlato al livello individuale di depressione e di mancanza di speranza; la mancanza di speranza, la depressione e l'insoddisfazione sono a loro volta direttamente legate all'uso di metodi suicidari letali; la mancanza di speranza è direttamente associata alla depressione, a una storia di ripetuti fallimenti nella vita e a una prolungata serie negativa di relazioni interpersonali, culminante nell'isolamento sociale. Questi aspetti risultano a loro volta correlati con traumi patiti nei primi anni di vita e con famiglie d'origine complesse e problematiche. Negli ultimi cento anni l'interesse degli studiosi si è rivolto soprattutto agli aspetti eziologici e ai tentativi di razionalizzazione del suicidio. La sociologia ha contribuito a far comprendere la relazione tra variabili sociali e tassi di suicidio, nello stesso tempo enucleando buona parte di quei fattori che sono comuni alle persone suicidane. D'altra parte la psichiatria, la psicoanalisi e la psicologia hanno evidenziato il ruolo di fattori individuali anch'essi comuni nei casi di suicidio quali le malattie mentali, la mancanza di speranza, il dolore psichico. Un modello ecologico, psicosociale, sembra rappre sentare un passo avanti verso la formulazione di una teoria generale del suicidio, che resta l'obiettivo principale per permettere la predizione e la prevenzione più efficace. DIEGO DE LEO e KAKATU KIEMO |